04 luglio 2020
di Massimo Naro
SACERDOTE, RE E PROFETA: RICORDANDO IL GIUBILEO PRESBITERALE DI DON VINCENZO SORCE
Il 29 giugno 1970 don Vincenzo Sorce veniva ordinato presbitero dal vescovo di Caltanissetta, mons. Francesco Monaco. Chi ora scrive, allora non c’era: sarebbe nato qualche mese dopo. Difatti, sono trascorsi cinquant’anni: una vita, come si suol dire. O, più biblicamente, «sette settimane di anni» (Lv 25,8) che si oltrepassano in un anno giubilare. Il 29 giugno 2020 avrebbe segnato, infatti, la ricorrenza del giubileo presbiterale di don Vincenzo, un anno di gioia, in cui celebrare la santità del Signore che l’aveva sempre accompagnato, s’era preso cura di lui, lo aveva liberato progressivamente dai suoi limiti, gli aveva innestato nell’intelligenza la sua santa volontà, gli aveva infuso nel cuore tanta consolazione, così come un tempo aveva fatto con Israele. Nella Bibbia è scritto che al decimo giorno del settimo mese del quarantanovesimo anno i capi del popolo avrebbero dovuto suonare la tromba, o il corno d’ariete, per indire l’anno giubilare ormai vicino. Se facciamo un calcolo, solo di poco approssimativo, ci accorgiamo che don Vincenzo è morto sentendo già, in sottofondo, lo squillo che gli annunciava l’avvicinarsi del suo giubileo sacerdotale.
La speranza cristiana ci induce ad avere la lieta certezza che l’anno giubilare di don Vincenzo si stia compiendo con la festa più bella e più grande ch’egli si sarebbe potuto attendere e certamente la veste bianca che occorre indossare per poter accedere a una tale festa ha, per lui, il taglio solenne della casula. È il motivo per cui anche noi possiamo e dobbiamo unirci spiritualmente alla festa, per condividere la gioia di don Vincenzo, ricordandolo con affetto e ringraziando il Signore assieme a lui. Del resto, come diceva un filosofo tedesco, Martin Heidegger, Denken ist Danken: pensare e ripensare, pensare seriamente (Denken) qualcosa o, più precisamente, a qualcuno, a ciò ch’egli è stato, a ciò che ha fatto, alla sua lezione di vita, equivale a ringraziarlo e, soprattutto, a render grazie per lui (Danken), per il dono ch’egli è stato.
In definitiva, si tratta per noi di pensare con il cuore, di ricordare – appunto – don Vincenzo. Ma come pensare seriamente al senso del ministero presbiterale di un uomo che era rimasto colpito dall’interrogativo rivoltogli un giorno da un ragazzo: «Hai una chiesa? Hai una parrocchia? Se no, che prete sei?». Che significato ha avuto, nella biografia di don Vincenzo, questo faticoso e al contempo salvifico cortocircuito tra avere ed essere?
Don Vincenzo Sorce è stato, non ha avuto. È stato, fondamentalmente in virtù del sacramento del battesimo e quindi del sacramento dell’ordine, profeta, sacerdote e re (alla maniera messianica e cristica: servitore fedele, non despota arrogante).
Interpretando in maniera peculiare questi tre impegni della vita credente in genere e del ministero presbiterale in particolare, don Vincenzo fu, innanzitutto, un testimone credibile del Vangelo. Non si limitò a esercitare la predicazione dal pulpito, come si può esercitare una qualsiasi professione, per esempio l’attività forense, o quella accademica, o quella giornalistica, che hanno a che fare con l’uso del linguaggio e delle parole nei tribunali, nelle aule universitarie o nelle redazioni dei quotidiani. Certamente predicò moltissimo anche dal pulpito, celebrando messa e tenendo corsi di esercizi spirituali, magari soffermandosi a meditare ad alta voce, con gli occhi chiusi e il sorriso agli angoli della bocca, come in tanti lo ricordiamo. E certamente predicò molto anche tramite i suoi scritti, i libri e gli articoli pubblicati lungo gli anni. Pure offrì una sua riflessione teologica e catechetica sulle forme nuove che la predicazione stessa dovrebbe assumere in questa nostra epoca, misurandosi con inedite sporgenze culturali. Ma la predicazione per lui non fu “soltanto tutto” questo. Egli non si accontentava di svolgere la predicazione in questa o in quell’altra modalità. Egli, piuttosto, “impersonava” la predicazione: per lui la Parola non poteva restare soltanto parlata, doveva essere anche vissuta. Per questo, tra le pagine evangeliche che più lo avevano impressionato c’era Mt 25,31-46, vale a dire quel brano che maggiormente esige di mettere in pratica ciò che si va predicando: l’attenzione ai piccoli della terra in cui il Figlio dell’uomo si lascia incontrare, vissuta con rigore etico e trasporto mistico.
E proprio un buon pastore, alla stregua di Colui che infine separerà le pecore dai caproni, fu inoltre don Vincenzo. Non è facile essere pastore pur senza possedere un gregge, guidandolo sì, ma standovi in mezzo a tal punto da coincidere col gregge stesso e da immedesimarsi con ciascuna delle pecore, specialmente con quelle ferite e deboli. La vocazione al ministero ordinato, per i preti e i vescovi, consiste in questa paradossale esperienza. Purtroppo non tutti lo comprendiamo e non tutti “siamo senza avere”, cioè senza presumere di possedere gli altri, senza nutrire l’ardire di dichiarare “mio” tutto e tutti (mia la chiesa, mia la parrocchia, mia la diocesi: la mia chiesa, la mia parrocchia, la mia diocesi). Don Vincenzo, invece, fu guida rimanendo discepolo, fu leader restando servitore, fu punto di riferimento permanendo orientato a sua volta verso l’unica vera stella polare, che è Cristo Gesù.
Da testimone credibile e da buon pastore, don Vincenzo fu al tempo stesso un autentico carismatico, esercitando per questo in mezzo al “popolo” di Casa Rosetta, di Terra Promessa e di Santa Maria dei Poveri, un’autorità non istituzionale, bensì fondazionale. Sotto questo profilo non sempre e non da tutti fu compreso. Anzi, spesso fu destinatario di critiche ingiuste e di ingiunzioni più restrittive che promotive, obbedienti a una logica tornacontistica più che alle urgenze della storia e alle sorprese della Provvidenza. Del resto, purtroppo, secondo una diffusa criteriologia che però risale al Concilio di Trento e che perciò fatica a discernere adeguatamente le novità dei nostri giorni, una fondazione di “tipo” religioso si incentrerebbe sul carisma, che essendo dono del Signore non è – ovviamente – esclusiva prerogativa di colui che ne è portatore. Questi sarebbe tuttavia, appunto, un mero “vaso conduttore”, una specie di “provetta ambulante” del seme divino. Non un vocato dal Signore, non una persona chiamata a mantenere un’alleanza personale con Dio mai più revocabile, alla maniera di Abramo, o dei due fratelli Pietro e Andrea, dei figli di Zebedeo, o di Matteo il pubblicano, o di Paolo di Tarso, o di Maria di Magdala, e così via. Ora, se il fondatore fosse semplicemente un portatore, sarebbe gioco-forza che il carisma iniziale – dal canto suo – potrebbe evolversi o persino cambiare connotati: spruzzato a destra e a manca, verrebbe ricevuto anche da altre persone, che perciò a loro volta diventerebbero protagoniste di una continua “rifondazione”, che può fare ben a meno del fondatore stesso. È, questa, una concezione che scorre precariamente su un filo di lana. In una congiuntura come l’attuale, in cui la realtà si svela sempre più con tutta la sua complessità, una tale criteriologia rischia di svelarsi alquanto ideologica: pur basata su un’intuizione corretta (Gesù stesso promise ai suoi discepoli che avrebbero fatto cose maggiori delle sue), viene alla lunga costretta a una torsione strumentale, in forza di cui alla fine il vero e unico agente fondazionale rimane l’istituzione che, come tale, ha il compito di esaminare, sorvegliare, ratificare o meno il carisma.
Sono problemi delicati, questioni aperte, temi di vasta gittata, decisivi per la vita della Chiesa intera. Ma “in piccolo” anche don Vincenzo dovette farne esperienza, anche lui portatore consapevole e convinto di un carisma fascinoso e importante, “utile al bene comune”, per dirla con un’espressione che riecheggia l’insegnamento di san Paolo. Un carisma che oggi, qui, può continuare a offrirsi come dono dello Spirito per il bene della Chiesa e per la salvezza del mondo solo mantenendo vivido l’imprinting spirituale di don Vincenzo.
Condividi