16 - 17 maggio 2019
Ufficio regionale per la Carità
“ACCOGLIENZA, DIALOGO, ANNUNCIO”: LE CARITAS DI SICILIA SI RITROVANO “ALLE QUERCE DI MAMRE”
Per mons. Giovanni Accolla, arcivescovo di Messina e delegato CESi per la Carità, “in un tempo in cui spopola la cultura dell’appropriazione, a noi cristiani e, soprattutto, a noi cristiani impegnati nella carità spetta ricordare che l’accoglienza è il primo approccio del cristiano, ed è esperienza a di misericordia. Significa fare l’opera di Dio che è misericordia. Quella misericordia – ha aggiunto il presule – che è parola ed atteggiamento scandaloso, oggi; certamente lontano dal modo si relazionarsi degli uomini”. Indicando ai partecipanti al convegno regionale l’esempio di Annibale Maria di Francia, santo messinese di cui si fa memoria oggi, mons. Accolla ha incoraggiato: “Se quella fetta del popolo di Dio che vuole annunciare il Vangelo non vive la misericordia, fa annuncio monco, manchevole, perché Lui è misericordia e la misericordia, che è il suo modo, deve essere il nostro”.
Il convegno delle Caritas diocesane di Sicilia è allora pensato come “occasione per ascoltare e ascoltarci, e per ricordare l’obiettivo”. Così nelle parole di Giuseppe Paruzzo, direttore dell’Ufficio regionale per la Carità, per il quale “il conoscersi conoscendo la comunità nella quale operiamo, è via maestra del cammino sinodale che dobbiamo compiere”. Per questo sono state “raccontate, prima ancora che presentate” alcune “storie di Caritas siciliana”: il progetto “Rifugiato a casa mia” dell’arcidiocesi di Catania, il progetto “Presidio” di Ragusa e “Liberi di partire, liberi di restare” realizzato a Caltanissetta. Ad introdurre le testimonianze, con in mano la lettera “Convertitevi!”, scritta dai vescovi di Sicilia in occasione del 25° dell’appello di Giovanni Paolo II contro la mafia e le ingiustizie, è stato don Antonino Basile, della Caritas di Messina. “Parlare dei piccoli successi, delle buone prassi, delle Caritas diocesane di Sicilia – ha detto – è mostrare i segni di una conversione concreta e attuale: non si tratta di non fare alcune cose, ma di farne altre, di fare le cose giuste, buone“.
Sul progetto Presidio, Vincenzo Lamonica, ha spiegato che “è nato per garantire il diritto alla salute, al lavoro dignitoso, all’assistenza. Si è pensato inizialmente ai lavoratori stagionali, ma non siamo certo noi a fare differenze o a mettere limiti e restrizioni. Il luogo naturale in cui far sede ci è sembrato essere proprio la parrocchia – ha aggiunto –, anche se siamo arrivati fin dove chi ha bisogno di noi vive e lì siamo rimasti: accanto a loro“. Un appello, il suo, alla “prevenzione e sensibilizzazione, che deve raggiungere tutti: istituzioni, enti, partiti, parrocchie. Perché non si tratta di fenomeni o, come si dice spesso, di problemi lontani da noi e che non ci riguardano, ma che anzi interpellano ciascuno di noi”.
Il Progetto “Rifugiato a casa mia” è conosciuto come esperienza di corridoi umanitari. Salvatore Pappalardo ha presentato “le difficoltà grandi che l’accoglienza ha presentato ma, con esse, anche la gioia immensa che ha portato; non solo a chi ha trovato casa, ma anche a chi ha accompagnato“. Riportando anche le testimonianze di chi è stato accolto, Pappalardo ha spiegato come “il dare casa significa dare dignità, come fa il lavoro. Ti permette di essere parte attiva della comunità e dà un’opportunità vera di rinascita. Ma con questo progetto – ha detto – la Chiesa dà qualcosa di più: la dimensione umana, di persone, degna di attenzione e importante agli occhi di altri“.
Il Progetto Betlemme, “La casa del pane”, realizzato a Caltanissetta, nell’ambito di “Liberi di partire, liberi di restare” ha preso il via per aiutare chi vive in condizioni disagiate, sotto un ponte, di fronte il centro d’accoglienza di Pian del Lago. Don Marco Paternò ha spiegato che “agli aspetti pratici, fatti di assistenza quotidiana e scolarizzazione, hanno fatto seguito aspetti pastorali: a partire dalla celebrazione della messa in inglese in parrocchia, fino alla richiesta di catechizzazione, avanzata dagli stessi fruitori del servizio“. Ma è il “pasto condiviso” ad essere diventato segno di misericordia e grazia: “Le famiglie immigrate, supportate dalla Caritas, fanno a loro volta accoglienza dei connazionali più poveri: gli preparano il pranzo – ha spiegato il sacerdote –, e in certi casi aprono le porte delle loro abitazioni e mettono in tavola un posto in più. Un esempio che si è fatto strada anche tra i nisseni che aderiscono, sempre più numerosi all’iniziativa“.
Il biblista messinese don Carmelo Russo ha guidato la riflessione biblica su due momenti della pagina che, nel libro della Genesi, narra dell’incontro a Mamre tra Dio e tre misteriosi ospiti, soffermandosi prima su “La quercia, come occasione dell’incontro” (Gn 18,1-8) e poi su “La tenda, quale situazione dell’ospitalità” (Gn 18,9-15). Ha presentato ai partecipanti al convegno tre “presupposti dell’ospitalità”. Innanzitutto la “circoncisione come memoria della ferita che crea lo spazio dell’accoglienza e della generazione: è il perdere, simbolicamente, qualcosa di nostro che lascia a Dio spazio in noi, che gli dà una feritoia in cui venire a innestarsi e a completarci”. Gli altri due presupposto sono poi la “prossimità nella distanza” e “la quercia e la sua ombra nel nostro contesto”. “Il contesto siamo noi – ha detto don Carmelo -, siamo noi siciliani ora, in questo momento storico e in questa terra che viviamo e nella quale viviamo”. A questi tre presupposti fanno seguito altrettanti doni che la pagina di Mamre – nella sua seconda parte, quella che fa spostare lo sguardo dalle querce alla tenda – consegna. “Il primo dono dell’ospitalità è l’essere ri-conosciuti, conosciuti per quello che siamo realmente. L’ospite, infatti – ha detto don Russo -, conferma e approfondisce la nostra vera identità”. Il secondo dono è Isacco: “è il dono della vita, è la concretizzazione della promessa. L’annuncio di Isacco realizza nella famiglia di Abramo l’imago Trinitatis”. Il terzo “e più grande dono” è Dio stesso, perché “più importante del dono – ha detto don Carmelo – è il donante. Per creare tempi e spazi di accoglienza occorre solo una cosa: mettere Dio davanti ad ogni nostra attesa”. Il biblista messinese ha spiegato la necessità di inframezzare la lectio divina con una lectio humana che, “non sono cose diverse: affinché la nostra lettura della rivelazione trasformi l’esistenza, bisogna permettere a Dio di leggere, Lui, la nostra condizione. Non siamo noi a leggere la Parola, ma la Parola che legge noi. Allora – ha aggiunto – è necessario avere il coraggio di mettergli davanti una descrizione spietata e vera di quello che noi siamo. Diversamente, come possiamo fare un passo verso Dio e verso i fratelli?”. In fondo alla prima scena, quella sotto le querce, resta aperta una domanda: “Abramo, alla fine, ha riconosciuto che i suoi visitatori erano Dio? Non c’è una risposta chiara a questa domanda. La narrazione – ha detto il sacerdote nella sua sua riflessione biblica – è aperta, forse perché anche noi dobbiamo confrontarci con questa domanda: saremo capaci di riconoscere il volto di Dio nel fratello che ospitiamo?”. E ancora: “L’ospitalità è solo dare? Cosa riceviamo accogliendo? O meglio: che cosa stiamo costruendo nell’accoglienza insieme ai nostri ospitati? Come si fa a passare dall’occasione delle querce alla situazione della tenda dove viene gestato il figlio Isacco?”. Per don Carmelo Russo “l’ospitalità parte dal riconoscimento della propria storia e richiede una condivisione del poco che si ha, senza aspettare che l’identità dell’altro sia riconosciuta. È commovente – spiega – che Dio abbia accettato da Abramo poca roba e non ‘a buon rendere’, ma come simbolo disinteressato di una comunione”. Sotto le querce di Mamre in Sicilia, “fare accoglienza non può essere la stessa cosa che farlo altrove. Fare Caritas in Sicilia ha delle peculiarità che dovrebbero essere esplorate guardando dentro la sua storia, anche quando si tratta di storie di dolorose. Non possiamo fare a meno di leggere insieme il fenomeno dell’immigrazione in Sicilia col fenomeno della emigrazione della Sicilia – ha detto don Russo -, smettendola di fare sentire traditori i nostri figli che decidono di lasciarla”. Se le domande relative all’accoglienza e all’ospitalità, soprattutto oggi, restano aperte, “occorre, dunque, andare a sedersi più spesso e più volentieri all’ombra delle querce di Mamre, nelle ore più calde; sostare in attesa, pronti ad alzarci per accettare chi compare all’orizzonte e far festa per il suo avere incrociato il nostro cammino; farlo nonostante il nostro poter essere feriti, circoncisi delle nostre certezze e, talvolta delle nostre speranze. Perché Dio arriva, arriva sempre; ci incontra e si fa incontrare; si fa ospitare e ci ospita; ci fa dono di Lui”.
Nello spirito sinodale del convegno, la seconda giornata di convegno ha avuto il suo centro nella relazione di mons. Rosario Gisana, vescovo di Piazza Armerina e delegato CESi per la Cooperazione missionaria tra le Chiese. Il suo intervento (QUI il testo integrale) ha permesso di riflettere sullo “stile di vita ecclesiale” necessario ad una “pastorale conforme al Vangelo”. “C’è bisogno di conversione – ha detto il presule –, di intendere, accogliere ed assimilare quanto ha raccomandato Gesù ai suoi discepoli. Il Vangelo è esigente: esso reclama un’adesione al modo di vivere di Gesù, sunteggiato dall’espressione perdere la vita per salvarla” ed “ispira, propone e struttura l’organizzazione delle attività pastorali”. Porta a “scelte ponderate, gesti solidali, obiettivi trasparenti, testimonianze sincere, accoglienze aperte”; e, ancora, “incoraggia il mondo alla conversione”. Nell’intervento di mons. Gisana anche una provocazione: “È il momento giusto per superare questo iato che si sta verificando nella Chiesa, ormai da qualche decennio, tra vangelo e atto di fede”. E ancora: “È a rischio quello che è la Chiesa per diritto divino, quello cioè che la definisce santa e testimone del suo sposo: la comunione fraterna. Quanto è difficile per i membri della Chiesa – ha detto il presule – porre gesti di aperta collaborazione nelle attività pastorali: con l’accettazione vicendevole, nel superamento tempestivo dei pregiudizi, con il venirsi incontro in spirito di riconciliazione, nel disciplinare le forze occulte del narcisismo e soprattutto nel fare spazio all’altro, al di là della sua condizione sociale, culturale o spirituale. Questa nota di santità, essenziale per l’identità della Chiesa, è legata alla centralità dei poveri”. Una logica che induce a porre una domanda sul ruolo che hanno i poveri nella vita della Chiesa e sulla dimensione ecclesiale della povertà”.
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