AGRIGENTO. “Perchè anche voi foste stranieri”: lettera del direttore della Caritas
Riportiamo il testo integrale della lettera che il direttore della Caritas diocesana di Agrigento, Valerio Landri, ha indirizzata alla comunità ecclesiale della Provicnia sugli stranieri presenti nel territorio della Provincia. Un testo che sollecita una riflessione comune sul rapporto del cristiano con lo straniero e della fedeltà al Vangelo che questa presenza oggi richiede.
LETTERA DELLA CARITAS
• Una presenza che ci interpella
La nostra società è sempre più ricca di presenze straniere: uomini e donne venuti in Italia a cercare un futuro migliore, se non, addirittura per sfuggire a morte, violenze e persecuzioni. Il volto delle nostre città, dei nostri quartieri e delle nostre parrocchie è cambiato immancabilmente: è divenuto più ricco e variegato. L’incontro con chi viene da altri paesi ci apre orizzonti nuovi, ci fa sentire cittadini di un villaggio globale in cui le distanze sono ridotte e gli orizzonti culturali sono in rapido cambiamento.
La presenza dello straniero ci interpella ogni giorno, particolarmente in questo momento di crisi economica e valoriale. Sembriamo tutti un po’ più confusi e rischiamo di perdere la rotta ed il senso profondo della Verità.
Questi fratelli stranieri offrono oggi un innegabile contributo alla economia nazionale, lavorano le nostre terre, si prendono cura dei nostri genitori e dei nostri figli. I loro figli, spesso nati sul suolo italiano, sono compagni di classe dei nostri figli e nipoti, sono di madrelingua italiana, pensano italiano, hanno gusti e cultura prevalentemente italiani.
Con ciò non vogliamo chiudere gli occhi davanti alle cattive testimonianze che vengono da alcuni di loro. La precarietà e l’incertezza per il futuro, infatti, spingono anche gli stranieri che abbiamo accolto nelle nostre comunità a condotte di vita discutibili, se non addirittura criminali; ma ciò non deve farci cadere nell’errore della generalizzazione e della categorizzazione degli immigrati. Chi, come il cristiano, è abituato a cercare il volto del Cristo nella storia di ogni uomo, sa che non è corretto il ragionare per categorie: ogni uomo ha una sua storia, un suo percorso. Non esistono “gli immigrati”, ma esiste invece l’uomo o la donna con una sua identità specifica e unica.
• Lo straniero per Dio
Ma chi è lo straniero? La Bibbia ce lo presenta come colui che richiama ad Israele il suo passato di popolo schiavo in terra straniera: è una grazia, un dono che Dio fa all’uomo per ricordargli la sua condizione di fragilità, di precarietà, di itineranza su una terra che non gli appartiene. Lo straniero ci ricorda che questa vita è solo un passaggio e che la terra, le cose, le case ed ogni bene materiale non ci appartengono del tutto, ma ci sono stati affidati perché li amministriamo con amore e responsabilità, consapevoli di non poter attaccare ad essi il nostro cuore, ma di doverli condividere con chi manca dell’essenziale.
“Essere stranieri è il simbolo della condizione umana (un’impotenza avvolta dalla benevolenza) e della condizione di Dio nel suo esodo perenne verso l’uomo. È attraverso lo straniero che la Bibbia risponde alle tre domande: chi è Dio, chi è l’uomo, come abitare diversamente il mondo”[1].
Nel solo Pentateuco, per oltre quaranta volte è richiesto di amare lo straniero, a fronte dell’unica volta in cui è detto “ama il prossimo tuo come te stesso”. Vorrà dire ancora qualcosa questo?
Israele sapeva che l’uomo migrante ha bisogno di protezione e di relazione e per questo aveva elaborato un vero e proprio codice a tutela degli stranieri, altrimenti esposti ad angherie, soprusi, sfruttamenti e ingiustizie sociali.
“Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” – troviamo nell’Esodo[2]. JHWH è il Dio degli emigrati in terra straniera: si è rivelato ad Israele proprio quando era forestiero in Egitto. Proteggere lo straniero residente nel paese significa per Israele, dunque, confessare la fede in Dio, mentre l’opprimerlo significa adorare un altro dio.
Lo straniero è il simbolo della precarietà della condizione umana: ciascuno di noi può vivere solo se sostenuto da relazioni, accoglienza e ospitalità. Lo straniero, con la sua diversità, ci consente di conoscere meglio noi stessi, le nostre peculiarità e forse è proprio per questo se, a volte, fa paura, come tutto ciò che non si conosce: cultura e stili diversi dal nostro mettono in crisi le nostre certezze e abitudini. È allora che rischiamo di percepire lo straniero come un nemico, un invasore, qualcuno da cui guardarci e proteggerci. Quanto è lontano questo sentimento da quello richiestoci dalla Bibbia!
• Noi e gli stranieri
Eppure è proprio allo straniero che spesso affidiamo le nostre persone più care, le più fragili della nostra famiglia: gli anziani ed i bambini. Tanti di noi hanno generosamente aperto le loro case a collaboratori stranieri: uomini e donne che condividono con noi il “peso” dei nostri affetti. Noi vorremmo occuparci dei nostri cari, ma non possiamo perché il lavoro ce lo impedisce, allora lo straniero viene in nostro soccorso e condivide il nostro peso. Prima ancora che nostri “dipendenti”, dunque, essi sono i nostri “collaboratori”: ciascuno di loro, lontano da patria e affetti più cari, desidera trovare nelle nostre famiglie un luogo sicuro, un porto di riparo, una nuova esperienza familiare.
Adesso proviamo a riflettere su quale sia il nostro atteggiamento nei loro confronti. Spesso li accogliamo come veri membri della famiglia, ci affezioniamo, entriamo in reale relazione con loro e ci appassioniamo alle loro storie. Altre volte, però, dobbiamo riconoscerci manchevoli. Troppo spesso, per un paese che si dice “cristiano”, ai migranti lavoratori si impongono condizioni di vita improponibili: lavorano 24 ore al giorno, 7 giorni su 7; magari si riconosce loro la libera uscita per qualche ora a settimana, ma non hanno diritti. Lavorano “a nero” (cioè senza un regolare contratto che li tuteli) o con contratti fintamente part-time; non hanno diritto a malattie o a ferie; non riescono a tornare in patria, dai loro figli o genitori, neanche una volta all’anno; non possono scegliere cosa mangiare, ma devono accontentarsi di quello che passa la famiglia presso cui lavorano. Se l’esasperazione dà loro il coraggio di presentare qualche rimostranza, sanno che possono realmente perdere il lavoro e così stroncare il sogno di far studiare i propri figli: e allora decidono di stare zitti e subire.
Quelli che lavorano nelle campagne hanno paghe misere e condizioni di lavoro (ovviamente in nero) spesso inumane. Non possono permettersi una casa, quindi spesso dormono all’aperto, in cascine abbandonate o sotto i ponti. Eppure è proprio grazie al loro lavoro che noi possiamo avere frutta e verdure fresche sulla nostra tavola ogni giorno. In talune situazioni ci si trova di fronte a vere e proprie schiavitù che gridano vendetta al cospetto di Dio. In molti sappiamo eppure in pochi parliamo.
• Quale impegno ecclesiale per la fedeltà al Vangelo?
E allora? Cosa possiamo fare come comunità cristiana? Cosa chiede a noi il Signore?
Innanzitutto di prendere coscienza della esistenza e della gravità di certe situazioni di sfruttamento; conseguentemente, di richiamare il fratello che le pratica ed, eventualmente, di avere il coraggio della denuncia per non incorrere nella complicità.
Molti di noi, probabilmente, hanno in casa una colf o una badante: chiediamo loro se si sentono amate, apprezzate e stimate per il servizio che fanno per noi; chiediamo loro se possiamo fare noi qualcosa per loro.
Ci sono tanti italiani che accolgono il lavoratore straniero con la dignità che merita. Ma sono ancora troppi i cristiani che non riescono a rendersi conto dell’immoralità della propria condotta.
È vero che non ci si può permettere, soprattutto oggi, di assumere tre dipendenti per coprire turni di 8 ore nell’arco di una giornata. Ma ciò non può in alcun modo giustificare alcuna forma di sfruttamento, soprattutto se a praticarla è un cristiano.
Forse dovremmo anche evitare la tentazione della delega totale dell’accudimento dei nostri cari: se lo straniero ci aiuta, a noi spetta comunque il compito di sacrificare parte del nostro tempo per dedicarci ai nostri familiari più fragili, anche nella logica di un restituzione del bene che essi ci hanno dato. Questo consentirebbe alle nostre colf e badanti di avere del tempo per se stesse.
Badiamo bene che l’avere in casa o nelle proprie campagne una donna o un uomo straniero, che lavora per l’intera giornata senza un contratto di lavoro regolare, senza il diritto a ferie e malattie, senza del tempo libero per pensare a se stesso, è un peccato grave, un comportamento moralmente riprovevole e non c’è alcuna giustificazione che tenga.
Cosa dire, poi, di quei cristiani che ricorrono al sesso a pagamento con donne evidentemente costrette a vendere il proprio corpo per sopravvivere o per ripagare un debito contratto per venire in Italia a cercare un futuro migliore per sé ed i propri cari o ancora perché sotto minaccia? Riusciamo a vedere in questi uomini e queste donne che vendono il loro corpo il volto di un fratello o di una sorella?
Chi si comporta in questo modo sappia che sta uccidendo la dignità di un uomo, riducendolo a mero oggetto di servizio o di piacere, e bestemmiando il comando della fraternità e dell’amore universale.
Inutile illudersi di aver fatto del bene per “aver preso in casa uno straniero” o pensando che chi si prostituisce lo faccia per sua libera scelta: la carità richiede la giustizia, la legalità e il rispetto assoluto della persona e, soprattutto, il coraggio della Verità.
Questo non vuol certo essere un giudizio nei confronti di nessuno, ma solo un invito alla riflessione comunitaria su quanto sta accadendo attorno a noi. Sono tante le segnalazioni di sfruttamento a diversi livelli perpetrato, anche da battezzati, in danno dello straniero; sono tante le esperienze di chiusura nei confronti dei migranti che popolano le nostre città.
Grazie a Dio, però, sono ancora più numerose le testimonianze di accoglienza e sincera generosità, di apertura e carità cristiana: sono proprio queste testimonianze che ci hanno dato il coraggio e il desiderio di scrivere queste pagine.
Riflettiamo dunque come comunità ecclesiale, per crescere insieme e contribuire così a rendere più cristiana la nostra società e far sì che la nostra Chiesa diventi sempre più conforme al progetto che il Signore Dio ha per lei.
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