3-4 maggio 2025
Ufficio regionale per l’Educazione cattolica, la Scuola e l’Università
“A SCUOLA SULLE ORME DEL BEATO PADRE PINO PUGLISI”: RIPENSARE LA MISSIONE EDUCATIVA ALLA LUCE DELLA TESTIMONIANZA DI CHI HA FATTO DELLA SCUOLA E DELLA FORMAZIONE CRISTIANA UN PILASTRO DEL PROPRIO MINISTERO
Si è svolto a Palermo, dal 3 al 4 maggio 2025, il Convegno Regionale di Pastorale Scolastica promosso dall’Ufficio Regionale per la Pastorale Scolastica e Universitaria della CESI. Il titolo scelto per l’incontro – “A scuola sulle orme del Beato Padre Pino Puglisi” – è stato un invito a ripensare la missione educativa alla luce della testimonianza di un uomo che ha fatto della scuola e della formazione cristiana un pilastro del proprio ministero, donando la vita.
L’iniziativa è stata articolata in due giornate intense, con momenti di confronto, spiritualità e riflessione nella città che ha visto nascere e crescere l’impegno pastorale del Beato Puglisi fino al martirio. Le attività si sono tenute presso la parrocchia San Giovanni Bosco, luogo fortemente simbolico: è qui, infatti, che “3P” crebbe nella fede da fanciullo, maturò la vocazione e celebrò la sua Prima Messa dopo l’ordinazione sacerdotale, come ha raccontato il parroco Don Giuseppe Calderone che ha accolto con familiarità i partecipanti. Quest’ultimi, una cinquantina dalle diverse diocesi siciliane, sono stati Direttori e Direttrici degli Uffici di Pastorale Scolastica delle diocesi siciliane, membri delle consulte o équipe diocesane, nonché referenti regionali di associazioni e movimenti ecclesiali impegnati nel mondo della scuola, come Uciim, Aimc, Diesse e Gioventù Studentesca.
I lavori hanno avuto inizio con la preghiera iniziale e i saluti istituzionali del Vescovo Delegato, S.E. Mons. Giuseppe Schillaci e del direttore dell’Ufficio Regionale, Prof. Marco Pappalardo. Il primo incontro formativo è stato sabato pomeriggio con la Professoressa Rosaria Cascio, allieva di Padre Puglisi, oggi scrittrice e testimone instancabile. L’esperienza maturata ‘ha spinta a indagare il “metodo Puglisi”, ovvero la metodologia pastorale, pedagogica e sociale che egli adottava in vari contesti: gruppi giovanili, scuola, comunità, parrocchia, territorio. Essere educatori secondo il metodo “puglisiano” significa prima di tutto conoscerlo, poi implementarlo nel qui e ora, e infine praticarlo nella coerenza quotidiana. Non è sufficiente aderire a una teoria: bisogna incarnarla, viverla, renderla azione educativa concreta. Al centro del metodo ci sono l’ascolto attivo e la relazione responsabilizzante. L’alunno viene riconosciuto nella sua unicità e valorizzato per le sue potenzialità. L’insegnante non è un semplice trasmettitore di contenuti, ma un facilitatore, un testimone credibile di ciò che propone. È la sua parola, intesa non solo come ciò che dice, ma come ciò che vive. Il suo esempio è il primo messaggio educativo. Quando si parla di didattica della legalità, non ci si può accontentare di studiare la mafia, guardare film o fare lezioni frontali. La legalità non si insegna, si testimonia. È una cultura che si costruisce attraverso relazioni autentiche e esperienze concrete, giorno dopo giorno. L’insegnante deve essere coerente e credibile: la legalità si “fa”, prima ancora di insegnarla. La scuola ha il compito fondamentale di trasmettere cultura, ma anche di fornire agli studenti una vera e propria “cassetta degli attrezzi” per affrontare la vita, le difficoltà, le crisi. Tra questi strumenti troviamo: l’ascolto, la lettura, la narrazione, la scrittura, la cooperazione educativa e soprattutto l’attenzione alla persona secondo Padre Puglisi. Il cuore del metodo è una pedagogia centrata sul giovane, sulla relazione e sull’esempio. Apprendere deve essere anche un piacere, un atto creativo. Il metodo dell’ascolto di Padre Puglisi si fonda su tre azioni: mettersi in sintonia con l’altro, accogliere con rispetto la sua giovinezza, e aiutarlo a coniugare studio e adolescenza. L’insegnamento, inoltre, non è mai un atto unidirezionale. È circolare: chi insegna impara, chi impara insegna. L’apprendimento diventa testimonianza di vita, e non mero accumulo di nozioni. Infine, alla base di tutto c’è la relazione educativa. Il docente non può pretendere valori che non vive in prima persona. Solo attraverso un ascolto autentico può entrare nel mondo degli studenti e diventarne punto di riferimento. Non si può educare davvero senza conoscere e rispettare il mondo dei ragazzi. Essere “puglisiani”, quindi, significa educare con l’esempio, con la coerenza e con la fiducia profonda nelle potenzialità di ciascuno, nella consapevolezza che ogni gesto, ogni parola, ogni relazione, può diventare seme di cambiamento.
Particolarmente intenso è stato l’incontro di domenica mattina con l’Arcivescovo di Palermo S.E. Mons. Corrado Lorefice che ha portato per l’occasione una delle più insigni reliquie del Beato, l’evangeliario che è stato a contatto con il suo corpo nella bara, impregnandosi di lui, lui stesso che in vita è stato impregnato del Vangelo. Durante gli anni di formazione in seminario visse l’esperienza con grande attenzione non solo verso sé stesso, ma anche cercando di leggere i segni dei tempi, come insegna il Vangelo. Imparò ad ascoltare, a comprendere e col tempo iniziò a intuire ciò che Gesù gli stava chiedendo. Il suo ministero sacerdotale si svolse in contesti diversi. Non fu mai un prete “classico”. Scelse di mettersi in ascolto dei bisogni dell’uomo, di accompagnarlo senza forzature verso la libertà della fede, annunciando un Dio che si propone ma non si impone. Un approccio che qualcuno avrebbe potuto definire “sociologico”, eppure non c’era nulla di più spirituale: riconoscere Gesù nel volto dei poveri era, per lui, il gesto più autentico di contemplazione. Chi crede davvero nella presenza reale dell’Eucaristia non può ignorare quella stessa presenza nei corpi feriti, negli occhi emarginati.Diceva spesso a sé stesso: Cristo ha mangiato con i pubblicani, si è seduto tra i peccatori. Il suo modello era quello del maestro che guida con l’esempio, non del giudice che condanna. Fu questa la strada che percorse anche a Godrano, la sua prima parrocchia, tra il 1970 e il 1978. Un paese segnato dalla mafia, ma anche da famiglie e da una comunità che, nonostante tutto, cercava la luce. In quel luogo, già allora, si intravedevano i semi del cambiamento. Poi, essere prete nella Palermo di quegli anni voleva dire non temere il contatto, la contaminazione con ambienti difficili. Significava portare lì una nuova cultura della legalità a partire dalla fede in Gesù, il Cristo. A Brancaccio, la sera, quando rientrava, amava sostare in silenzio per strada, prima di entrare a casa. Era il momento dell’ascolto. Quando si spegnevano i rumori della giornata, riusciva a percepire la sofferenza nell’aria, l’ingiustizia, il bisogno di risposte, la fame di liberazione. Il suo sguardo era proiettato verso il futuro e quindi verso i bambini. Dentro di lui vivevano persone, voci, desideri: uomini e donne che lottavano, che cercavano un senso, che volevano credere che il loro vuoto potesse essere colmato. E lui lo sapeva: violenza e povertà erano intrecciate, e il compito era spezzare quella catena. Ma quegli occhi pieni di innocenza e vitalità meritavano la gioia di una vita dignitosa, fondata sul rispetto dell’anima umana e di Dio. Era pronto ad ascoltare, ad aiutare, e se necessario, anche a scuotere.
Perché il Vangelo di Gesù Cristo lo spingeva ad agire in spirito messianico. Si era messo in cammino per combattere la dispersione scolastica e ogni forma di abbandono. Lo diceva con forza: il messaggio era chiaro. E lui non poteva tacere! Continuava, con prudenza, ma anche con determinazione. Viveva in semplicità, veniva minacciato dalla mafia in più modi. Diceva: “Il massimo che possono farmi è ammazzarmi. Non ho moglie, non ho figli. Non sono un eroe. Non sono un prete speciale. Sono solo un uomo”. Era un uomo. Un battezzato che aveva ricevuto il dono di un ministero. E ci ricorda che tutti i battezzati, uomini e donne, partecipano di questa stessa vocazione. Come docenti cristiani siamo chiamati a rinnovare ogni giorno la nostra missione, a educare con autenticità. Chi era, dunque, quest’uomo? Un pastore. Uno di quei pastori di cui parla la Scrittura. Pastori che camminano davanti al gregge, che tracciano la via, affrontano i pericoli e proteggono le loro pecore. Pastori che hanno un solo modello: il Signore Gesù. E imitare Gesù oggi non significa vestirsi come Lui o recitare formule a memoria. Significa essere animati dal Suo Spirito, camminare sulle sue orme, con autenticità e coraggio. Questo era l’annuncio. Questa era – ed è ancora – la chiamata.
Dopo i lavori in stile sinodale su “quale Pastorale Scolastica per la Sicilia e per le singole diocesi”, c’è stata in chiusura la concelebrazione eucaristica con la comunità parrocchiale, presieduta dal Vescovo S.E. Mons. Giuseppe Schillaci.
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